IL VIAGGIO

Il bisogno di viaggiare è innato negli individui, si pensi al nomadismo dei popoli, alla ricerca del cibo o agli attuali spostamenti per motivi di lavoro. Ma il viaggio può anche essere desiderio di evasione, curiosità e bisogno di conoscenza. Nel mondo medievale viaggiano i mercanti, gli artisti, gli intellettuali; una figura particolare è il pellegrino che si dirige verso mete sacre come Roma, Terra Santa ecc…I primi autori di libri di viaggio sono dunque mercanti e pellegrini, tra essi il più importante è Il Milione di Marco Polo, mercante veneziano che giunge fino in Cina. Il XVI secolo è l’epoca delle grandi scoperte, i viaggi si intraprendono per motivi commerciali e implicano la stesura da parte dei navigatori di accurati rapporti ai sovrani. Ecco le relazioni di grandi esploratori come Vasco De Gama, Cristoforo Colombo, Vespucci, Magellano; si disegnano carte geografiche e Mercatore crea un nuovo mappamondo. Solo verso la fine del700 nasce il viaggio di piacere progenitore del moderno turismo. Questa nuova esperienza di viaggio è riservata però ancora a un elite privilegiata come giovani aristocratici e grandi intellettuali che vengono in Europa come tappa obbligatoria in particolare in Itala a Roma. Il libro di viaggio si trasforma in un opera in cui l’autore lascia emergere impressioni ed emozioni; rientrano in questa categoria grandi intellettuali come Goethe, Alfieri, Algarotti. Nell’800 i viaggi conoscono nuove motivazioni, non solo per “vedere” ma anche per un rifiuto della realtà quotidiana dove gli intellettuali avvertono un limite per la loro fantasia e creatività.

Gli intellettuali spostano la loro attenzione verso luoghi esotici dove sperano di trovare una società incorrotta. Nel900 ci si spinge verso mete più lontane, gli scrittori privilegiano le loro impressioni mentre gli intellettuali denunciano i mali del colonialismo e l’arretratezza del terzo mondo o descrivono costumi e modi di vita insoliti per la mentalità occidentale.

Oggi mete di viaggio sono spesso luoghi ritenuti “esotici” e spesso si rientra in contatto con gli “altri” per lo più nei loro aspetti puramente folcloristici. La globalizzazione da un lato mette in contatto persone di ogni angolo del mondo, dall’altro tende a livellare le differenze e a cancellare le specificità dei popoli. Un tipo particolare di viaggiatore è il Vagabondo considerato un’accattone o una persona che vive ai margini della società, in letteratura però è oggetto di attenzione da parte di numerosi scrittori. Mentre il viaggio comporta l’idea di una meta da raggiungere e di uno scopo, il vagabondaggio si colloca in una dimensione più sfumata e incerta dove fine e destinazione non sono elementi fondamentali. Vagabondo illustre è Ulisse, l’eroe costretto dal destino a vagare in vari luoghi prima di raggiungere la sua patria. Ma il vagabondaggio può essere causato da ragione reali come la povertà e il bisogno di cercare mezzi di sostentamento: è quanto succede a Oliver Twist nell’omonimo romanzo di Charles Dikens dove il piccolo protagonista è costretto a vagare in cerca di un sicuro punto di riferimento in una società in rapido cambiamento. Si può essere vagabondi per scelta come alcuni poeti romantici e i protagonisti delle loro opere che rifiutano la routine quotidiana e vanno in cerca di ideali spesso irraggiungibili . Il vagabondaggio diventa un vero e proprio fenomeno culturale con il movimento degli Hippies che compaiono nell’America negli anni ’50  per poi approdare anche in Europa. Il popolo al quale il mondo occidentale associa il concetto di nomadismo è quello ROM (uomo). Difficile stimare il numero di appartenenti a questo gruppo etnico, refrattario ad adeguarsi alle norme della convivenza sociale dei paesi che attraversa. Molti sono i pregiudizi che accompagnano nel mondo occidentale la presenza del popolo ROM percepito come una minaccia e per questo vivono ai margini della società svolgendo occupazioni occasionali al limite della legalità. Oltre al popolo ROM, nomade per cultura, masse di persone intraprendono i viaggi della speranza cercando in occidente una sistemazione di vita, lavoro, casa, sicurezza politica ed economica. Anche il nostro paese conosce da alcuni anni questo fenomeno: lavoratori provenienti dall’Africa, dall’Asia e dall’ est europeo che svolgono umili mansioni o vendono oggetti per le strade sono la testimonianza di una povertà che è giunta a bussare alle porte del “ricco” Occidente. Anche gli italiani sono stati emigranti soprattutto verso gli Stati Uniti e sanno che l’emigrazione dà problemi di adattamento e di integrazione. Anche se sentiamo parlare della società del futuro come una società multiculturale in cui i popoli dovranno trovare un modo per convivere serenamente non è certo facile adattarsi alle nostre condizioni di vita e non è semplice nemmeno per gli occidentali, a causa della loro posizione storicamente dominante, accettare usanze diverse e superare i pregiudizi razzisti.

Uno degli autori neorealisti che ci ricorda il viaggio in letteratura è Elio Vittorini, una delle figure centrali del panorama italiano tra gli anni 30 e 60 e animatore di quella cultura dell’impegno di derivazione gramsciana. Vittoriani nasce a Siracusa nel 1908; figlio di un capostazione, approfittando dei biglietti ferroviari che il padre aveva gratuitamente compie durante l’infanzia numerosi viaggi attraverso la Sicilia, viaggi che divengono oltre che momenti di avventura, strumenti di formazione e di conoscenza ed esplorazione dello spazio letterario.

Tutte le opere di Vittorini sembrano muoversi, inoltre, nella costante ricerca di un equilibrio tra poesia e storia che possa conciliare l’impegno morale con la letteratura.

Da questa esigenza nasce il simbolismo dei romanzi di Vittorini, la tendenza a trasformare la realtà in mito, le immagini e le parole in qualcosa di emblematico che riveli il lato più umano. Per arrivare a conoscere una realtà più superiore “due volte reale” così scrive a Conversazione in Sicilia occorre “fare poesia nel romanzo” usando delle metafore capaci di ricreare tra le cose dei rapporti che ne svelino l’essenza. Conversazione in Sicilia è il punto più alto della poetica di Vittorini. I critici lo ritengono il suo capolavoro, il romanzo in cui lo stile lirico-narrativo dell’autore trova la sua migliore realizzazione. In questo romanzo, si narra il viaggio da Milano alla Sicilia di Silvestro, personaggio dai tratti autobiografici: Silvestro è un linotipista siciliano emigrato da 15 anni nell’Italia settentrionale. Il viaggio inizia quando Silvestro riceve una lettera dal padre e decide di andare in cerca delle proprie radici nella terra natale, per tentare di comprendere  insieme il proprio passato e il proprio presente. Ma sulla nave, sul treno e nel paese natale, nelle parole degli uomini che incontra troverà la conferma al dolore del “mondo offeso” da una situazione di degrado e di ingiustizie. Il romanzo, privo di una vera conclusione si chiude con Silvestro che saluta la madre e se ne va “in punta di piedi”. Conversazione in Sicilia appare così un romanzo della coscienza più che un romanzo di fatti, dove la Sicilia diviene il simbolo di un’eterna condizione di sofferenza; nel romanzo i luoghi non sono mai reali ma simbolici, il tempo della narrazione è sempre il passato remoto.